Alla fine, cosa ti rimane?
Una domanda che apre a tante risposte, ma che stiamo dimenticando: dobbiamo essere noi a capire cosa ci lascia qualcosa e cosa invece ci fa solo perdere tempo. Anche nell'arte urbana.
Soundtrack: I Cani - Questo nostro grande amore
🗣️ “Leggi, Disiscrivi, Ripeti“
Se pensi che scegliere un tema per la newsletter mensile sia facile, lascia che te lo dica subito: non lo è. Ricevo decine di newsletter ogni mese, e puntualmente, dopo due o tre letture, clicco disiscriviti sul 90% delle stesse. Perché? Perché mi sembra sempre di leggere la stessa roba: gente che parla di sé, che dispensa consigli non richiesti, e alla fine, cosa mi rimane?
Oggi voglio parlare proprio di quello che rimane (o dovrei dire non rimane). Di ciò che la street art sapeva lasciarti addosso e che, oggi, solo in pochissim* ancora riescono a fare.
Ne ho già scritto: la street art contemporanea è diventata da una parte ricerca di sensazionalismo, con la gara a chi attacca il poster commemorativo per primo; dall’altra muralismo corporate, completamente addomesticato: murales che fanno scena ma non lasciano segno, commissionati da multinazionali che li usano come sfondo Instagram. Bei poster, bei muri, bei colori, ma nessuno che si ricordi cosa volevano dire. E magari nemmeno chi li ha fatti o pagati.
E quindi: oggi di un’opera di street art cosa ti rimane davvero?
In una recente intervista (la trovi in fondo alla newsletter), parlavo di un’artista che negli ultimi tempi mi ha colpito più di molti altri: Eneri, pixadora brasiliana. Eneri ha portato il linguaggio radicale del pixação dentro il discorso artistico contemporaneo, senza svendersi troppo.
E questo mese è passata da Milano per parlare del suo nuovo progetto. Un’installazione semplice all’apparenza, ma con più strati di lettura in cui parla di immigrazione, politica, integrazione. Non ti dà risposte: ti mette in crisi, ti lascia qualcosa.
Avevo già seguito il suo percorso a Rotterdam, grazie a una newsletter di Giulia (che ti consiglio sempre). Lì aveva spiazzato tutti con un lavoro che non cercava consensi, ma scuoteva chi passava per strada. E infatti nessuno se lo aspettava. A Milano, invece, ha lasciato un segno vero (illegalmente): il primo pixos della città firmato da una voce autentica della scena.
Lettere enormi in un palazzo in disuso fuori dal centro città, lontano dai classici tour di street art. Ma il punto non è la firma, bensì la frase finale
“CAN INSTITUTIONS HANDLE WHAT THEY CLAIM FOR?”
Le istituzioni sono davvero in grado di gestire ciò che promettono di fare?
Una domanda così, scritta su un muro, ti può cambiare la giornata, ti lascia qualcosa. Ma poi ti guardi attorno e vedi la gente che ancora fotografa i soliti poster del Papa, di Sinner, o del VIP di turno, con la scritta furba o emozionale sotto.
E sai che ti dico? Va benissimo così. Anzi, meglio.
Perché meno attenzione riceve l’arte che protesta, più sarà costretta a farsi sentire. Più tornerà all’illegalità, al rischio, alla necessità di dire qualcosa che non puoi ignorare. Qualcosa, che magari, ti rimane in testa tutta la giornata.
Magari ti farà incazzare. Ma qualcosa, alla fine, te lo lascerà. Un dubbio, almeno.
Dunque la prossima volta che osservi un’opera di street art, prova a pensare: di tutto questo, a te, cosa rimane? Perchè se ti rimane zero, allora qualcosa non sta funzionando.
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Dopo un po’ di indecisione sul partire o meno con questo progetto, ecco online il mio nuovo podcast: BANKSY – ANATOMIA DI UN’OMBRA. Un racconto a episodi sulla vita dell’artista di Bristol, partendo proprio dalla sua città per poi esplorare tutto ciò che ha segnato il suo percorso.
Sarà un lungo viaggio, ma sono certo che mi porterà (e ti porterà) alla scoperta dei lati più nascosti di Banksy.
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💡 Idee e tempo libero
Eneri è stata invitata a Milano, all’interno del panel di Art for Tomorrow 2025, per parlare del suo progetto/installazione a Manhattan. Ti consiglio di guardare questo video di circa venti minuti in cui, insieme a Joao Correia, raccontano What is (un)Tradeable: un intero piano del WTC che, grazie all’arte, ci pone davanti a domande semplici, ma che troppo spesso dimentichiamo.
Se invece non hai voglia di sbatterti e cerchi qualcosa di più easy, per staccare un po’ il cervello, allora ti consiglio la season finale di Bosch: Legacy. Se ti piacciono i thriller e non hai mai visto Bosch, abbiamo un problema. Prima o poi esploderà e diventerà super commerciale, un po’ come è successo con Ozark (che avevo già consigliato in una delle mie prime newsletter del 2017). Quindi goditela ora!
🕵️ About Gian: “Figa è un casino”
Stavo cercando di riorganizzare i pensieri e mi sono davvero accorto che il mese di maggio è sembrato lungo quanto novanta giorni. Ora che siamo arrivati al 31, devo ammettere di essere molto stanco, anche se in realtà non è ancora finita.
Ho visto il film su GECO, ma purtroppo non mi ha convinto del tutto. Forse avevo aspettative diverse, oppure conoscevo già tutta la sua storia, anche in modo più approfondito rispetto a quanto viene raccontato nel documentario. Se sei curios* di sapere cosa ne penso, ne ho parlato qui.
A Sesto San Giovanni, uno dei comuni più grandi dell’hinterland milanese, c’è stata una mostra interessante sul writing. L’esposizione includeva quasi un centinaio di fotografie che raccontavano l’evoluzione di questa forma d’arte sul territorio. Iniziative di questo tipo sono sempre preziose e spero davvero che possa nascere qualcosa di più strutturato.
Ho avuto anche modo di incontrare Wany, una delle figure più autorevoli della scena Hip Hop italiana. Abbiamo scambiato qualche parola e gli ho proposto una collaborazione per gli Amazing Day di settembre. Se tutto andrà per il verso giusto, potrò raccontarti qualche retroscena del festival.
E poi ci sono stati quei due giorni, purtroppo troppo brevi, trascorsi a Montesilvano. Sono stato invitato da Enrico del Pulpa Festival (grande persona, che ringrazio ancora) e ho vissuto un’esperienza intensa all’interno di un contesto condominiale popolare. Questo ambiente mi ha riportato indietro nel tempo, ai luoghi della mia infanzia, a una vita fatta di lentezza e semplicità, nonostante i problemi, e a valori come la condivisione che considero ancora fondamentali.
Durante quei giorni ho conosciuto nuovi artisti, ho parlato con loro in tre lingue diverse, ho ascoltato storie, ho rivisto Andrea (@verdenex), che si conferma sempre un ottimo cicerone, e ho ritrovato anche Giacomo di Gulìa Urbana.
“Non dobbiamo creare qualcosa che piaccia e basta, ma qualcosa che sia della gente che vive il quartiere. Bisogna vivere il quartiere e lasciare una traccia, non arrivare, disegnare e ciao”
A Giacomo voglio dedicare una menzione speciale. Anche se è probabilmente la persona peggiore con cui dividere una stanza (e forse nemmeno due stanze sarebbero sufficienti), l’impegno che mette nei suoi progetti, il modo in cui coinvolge le persone e la forza delle sue idee fanno di lui una figura davvero centrale nell’arte urbana italiana. Portare grandi nomi a dipingere in Italia non è mai semplice, ma questo per me è secondario, perché Giacomo si distingue soprattutto per la sua dimensione umana.
Gulìa Urbana è un progetto che va oltre la realizzazione di murales nei quartieri. E’ qualcosa che tutti dovremmo conoscere e supportare, per questo ti invito a seguire tutto ciò che fanno perchè sono certo che sempre di più diventerà uno dei punti cardine della street art italiana nel mondo.
Infine, ti racconto la classica disavventura del ritorno da Pescara. Dopo Rimini il treno si è fermato per quasi un’ora e sono arrivato a Milano Centrale con 45 minuti di ritardo, giusto il tempo per perdere l’ultima metropolitana della serata.
Per fortuna esiste il bus notturno, anche se trovare la fermata non è stato affatto semplice. Complice la stanchezza, ma con ogni probabilità a causa della mia distrazione, all’una di notte sono salito su un autobus nella direzione sbagliata. Dopo un viaggio non previsto, sono finalmente arrivato alla mia auto verso le due del mattino. A quel punto, però, è sorto un altro problema: non riuscivo a trovare le chiavi. Ancora una volta, forse per la stanchezza, ma quasi certamente per distrazione, le avevo messe nel beauty case insieme al dentifricio.
In conclusione, posso dire che ho messo piede in casa solo verso le tre del mattino con un solo pensiero: “domani devo scrivere la newsletter”.
Come sempre se vuoi fare due chiacchiere ed approfondire qualcosa fatti sentire,
G.
🗞️ Al di fuori di disagian
Noo Tempo - Special Interview: un creativo urbano (A cura di Martino Vesentini) | Leggi qui
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Bellissimo tema, Gian, su cui proprio in questi giorni sto riflettendo tanto (proprio stasera, al CVTà Street Fest, modero un dibattito dal titolo "La street art è morta?" feat. Alice Pasquini ed Elfo... ne sentiremo delle belle! 😂)
Also: Io quest'anno (cioè, la settimana prossima) sarò a Gulia Urbana :-) ci vediamo lì?
Ottima osservazione, ottimo spunto per riflettere. Personalmente (classe 1969) ho inizato a fare street art per caso, molto tardi verso i 50 anni, conoscevo molti street artist fin dai suoi arbori in Italia, quando a Milano ci si incontrava a Burger One, al muretto, a ballare la brake dance e a parlare di Rap, era il 1985, poi ci sono successe tante cose. A Newyork gia' nel 1990 l "graffiti" erano stati abbastanza emarginati ( la sabway che arrivava dal Bronx e da Brooklyn era gia bella pulita e non vi erano segni sui vagoni). Mentre qua si sciommiotava il ghetto, come a Berlino Londra, e Sydney , non ha mai smesso la tendenza. D'altra parte i piu' scaltri si sono dedicati al commerciale, gallerie d'arte e pubblicita' dei brand. I piu' colti invece si sono dedicati alle opere museali con attenti studi di cromatologia e percezione visiva, ma sempre tutti insieme molto attenti a non pestare i piedi ai poteri forti e bravissimi a stare nei ranghi, nei gruppi di appartenenza. Ritornando al discorso iniziale ho iniziato modificando i manifesti del romanticismo (50 manifesti di una mostra al quale ho appiccicato la faccia di Gene Simonson dei Kiss modificando la scritta da romanticismo a romanticKiss) . feci centro. Perche' migliaia di mIlanesi videro quei manifesti e qualcuno credette fosse una vera mostra. (riusci' il qualche maniera a cambiare i paradigmi della coscienza collettiva, avevo interferito con il pensiero diffuso, pubblicita',moda, consumismo) si informo' Angelo Crespi che lavorava alla Triennale(attualmente direttore della pinacoteca di Brera) e mi fecero fare una piccola pubblicazione).